Questa lettera si inserisce tra le oltre 400 che costituiscono gli scambi diretti tra i coniugi Datini, durante i periodi in cui si dividono tra le loro residenze di Prato e Firenze. […] Contrariamente alla situazione più comune, Margherita si trova a Firenze, mentre Francesco è rimasto a Prato per sorvegliare il cantiere del suo palazzo. […]
Questa lettera, la più antica tra quelle autografe, concentrate principalmente negli anni 1394-99, testimonia il livello iniziale di un’alfabetizzazione che sarà per Margherita più complessa, rispetto a quella che abitualmente raggiungevano le donne del suo livello sociale, a giudicare dalle lettere di sua madre e sua sorella. Aveva senza dubbio iniziato a scrivere nel periodo dell’infanzia ma probabilmente non aveva più praticato la scrittura per una quindicina di anni, a giudicare dall’aspetto caotico di questo documento. Negli anni 1390 Margherita dirà che sta ancora imparando a scrivere, con l’incoraggiamento di ser Lapo Mazzei, amico e consigliere di Francesco. […]
In quanto donna, non poteva comunicare che con una ristretta cerchia di parenti, amici e impiegati di suo marito e con le mogli di alcuni notabili fiorentini, pratesi e di altre città vicine. La sua pratica abituale consisteva nel dettare le sue missive a un collaboratore di suo marito, dal momento che gli affari domestici erano gestiti in simbiosi con l’attività commerciale e l’ambito della riservatezza familiare era più assimilato a una cerchia di stretti collaboratori e clienti sociali che al ristretto nucleo familiare, come lo intendiamo oggi.
La mancanza di disponibilità di personale in quel giorno di febbraio 1388 ha senza dubbio incitato Margherita a tentare di ritrovare un’espressione scritta che aveva abbandonato da tempo.
(Il testo è una sintesi tratta dal sito Correspondances Datini di Jérôme Hayez)
Margherita a Francesco di Marco (D.1089/1, 9302781 – trascrizione a cura di Jérôme Hayez)
Al nome di Dio, amen.
Io riceveti tua letera, la quale vidi vole[n]tieri e manderoti quelo che tu mi mandi a chiedere, ma ch’io abi per chui, chome per [= che] marvolentieri te le mando, ché ài iscielto uno bello tenpo a murare. Se ne dovese perdere la vita, io ti dirò i[l] vero e senpre òri [= òti] deto. E’ mi pare che tu abi preso asa’ chativo partito di stare chostì per questo tenpo, ch’è chosì chagionevolle ch’à l’uomo asai che vivere chon questo tenpo, esendo di Quaresima.
[…] Io chredo che chostoro v’avesano avisati chom’io ebi male, chome per [= che] la letera che riceveti da te tu no∙ ne fai me[n]sione niuna. Sone molto maravigliata, chome per [= che] pocho me ne churo per me. Perr ave[n]tura no[n] te l’averano iscrito, chome [che] io il diciese a Iachopo da Sa[n] Donino il dì che tu ti partisti quinci. Sai ch’io ti disi la matina che io [non] mi sentivo chosì bene. A le 22 ore mi vene uno grande acidente, ch’io ero in sala, e fecimi Idio tanta granzia [sic] che io pote’ chiamare. Perdeti la favela e ongni sentimento, e chosì istenti i[n]sino a la groza. Die’ gra∙ mani[n]cholia a tuti chostoro che bene mi volevano. Mai non credetti morire senone alatta [= alotta], chome [che] sarebe istato il mio melglio, chome ch’è tropa iscura morte a morire chosì di subito. Idio ne gardi me e chi bene mi vole, chome che sarà gra[n] bene de l’anima mia. Piacia a Dio che cho[sì] sia ! Io tri piego [sic] che tu torni il pi’ tosto che tu puoi. Se no[n] fose q(u)esto tenpo, no∙ me ne churerei. Tuti chostoro istano bene. […]
Per la tua Ma[r]g[h]erita ti si rachomanda, a dì XX di frebraio 1387.