Il Palazzo sognato

Palazzo DatiniBartolomeo Levaldini scrive a Francesco Datini l’8 di Settembre 1390, il dì della  Nostra Donna, che ssi ffa la fiera a Prato, dove tucti huomini e donne honorevoli e da bene vengono.

Nella lettera Bartolomeo racconta al mercante di aver sognato il Palazzo di Francesco, vuoto dei suoi abitanti, animarsi per il mormorio grande dei vari ambienti. Il percorso onirico di Bartolomeo si snoda attraverso tutta la casa: ogni luogo decanta le proprie bellezze e lamenta di non essere utile a nessuno per l’assenza dei proprietari e dei loro amici. Così nella corte, il pozzo si dichiara il più bel pozzo di Prato, addirittura degno della piazza di Perugia e invita Bartolomeo ad attingere la sua acqua cristallina per non sentirsi inutilizzato, e dalla cucina, dove la gatta troneggia sul focolare, provengono voci che decantano succulente pietanze.

 

Honorevole maggiore fratello, sempre ebbi pocho a calere i songni e di quegli ò poco cura, ma questa nocte m’è occorso avere facto uno songno che m’à dato materia di quello fare mentione e a voi per questa scriverlovi. Parevami nel detto songno andare verso casa vostra a visitarvi per questa fiera, per farvi compagnia come spesse volte è di mio costume; e bussando l’uscio vostro, domandando di voi, mi fu risposto, no[n] da persona veduta, che voi no[n] eravate a Prato. E volendomi partire, uscì voce della vostra camera in che ora usate di mangiare e chiamomi ch’io l’ascoltasse. Entrai l’uscio e quella boce mi disse: «Ricorditi, la domenicha sera ançi il Carnasciale passato, quanti huomini da bene in questo luogho furono honorati; quante volte ti ricordi avedere [= avere] veduto luogo più honorato? Certo, io penso che pochi. Ma dimmi, il Carnasciale, è egli più dì solempne e più da honorare che questo santo dì della fiera? Se none, perché questo luogho è oggi voto e no[n] honorato come fu quel dì?». Questo udendo, mi parea essere tucto stupefacto, perché non vedea chi parlava. E altra voce uscì dell’altra vostra più orrevole camera, dicendo: «Odi, odi, ser Bartolomeo, non è oggi il dì della Nostra Donna, che ssi fa la fiera a Prato, dove tucti huomini e donne honorevoli e da bene vengono? O! s’egli è, dove sono le donne che qui in questo luogo dovrebono essere in compagnia e consolatione della donna di Francescho? A che è facta questa camera tanto bella, tanto magnifica, per lasciarla sola e vota in sì facto dì? Certo io mi dolgo, ch’ell’è luogo e camera acta e dove bene starebbe ogni nobilità di donne da bene, ancora se fossero di stato signorile, e se l’usa e gode monna Tingha!». Stando a diletto a udire, ch’era molto rasicurato, nella loggia vostra si fece grandissimo barboctare e dicevasi: «O! a che è facta questa loggia? A spegnere galcina e tenerci imbreci o mactoni? O! e’ non à in Firençe più bella loggia! O! perché non farmi oggi honore di farmi vedere a nobili huomini, con capolecti e panche con panchali come sì facto bello luogo richiede?». E faccendo grande doglença, disse il poço: «Do! Perché non sono io in sulla piaça di Perogia, dove sarei tenuto caro, ché sono il più bel poço di Prato e più fertile di buona accqua che nullo altro di questa terra? Quanti vasi, quanti bicchieri, taçe, infreschatoi e vaselle richiede oggi essere qui? E nulla ce n’è. E più mi dolgo che mmi fece rimendare e ò acqua che il cristallo non è più chiaro e tengomela, ché a persona non ne do». E forte mi pregava ch’io actignesse una secchia e gustassella. Di che, udito lo ’nvito del poço, prendea partito di partirmi e io sentì per tucta la casa mormorio grande, sentendosi così nobile casa e adorna di tanti nobili e belli agiamenti non era in questo dì mostrata come si mostrano le belle cose. E a dire il vero, a me parea essere forte impacciato, perché non sapea fare risposta, e avea preso il camino d’uscirmi fuori, ma della chucina mi parea uscisse uno che mmi prese per lo gherone, e dicevami: «E’ conviene che tu mangi qui». E io, faccendone contesa, mi dicea: «Come non ci rimanni? E’ ci è da mangiare di molta buona vitella di molte e grandissime peçe! E sonci de’ raviuoli di quel buono cascio luchardese ch’è venuto da Firençe e sonci parecchie schedonate di quaglie e buoni pollastri e pipioni e ancho ci è altro ch’io non to [= ti] vo dire». Onde io, ghiocto, udendo tante buone cose, m’atalentava a rimanere, ma l’amicho che m’avea preso per lo gherone mi disse: «Ai, ghioctuccio che ctu sè, bene pensavi empierti il corpo! Ora vieni a vedere la chucina». Andai dentro e trova’vi la gacta in sul focolare. Pensate come io rimasi biancho! E chiuso nell’ebino, m’uscì fuori. E nell’uscire del vostro giardino, mi si fece incontro alchuno ch’io no[n] conobbi e tirommi dentro nel giardino. Parevami che tucti quegli vostri melaranci parlassono, e diceano: «O! Francescho nostro ti dice pure che tu sè nato tra lle ghiove e costumi pastricciani e cipolle e ranocchi, e tu ài nella tua corte uno arancio e à’lo facto vedere a ciaschuno ch’è venuto a questa festa e noi siamo ringhiusi! Ma se fosse possibile, noi volentieri ci divelleremo quinci e verrenne techo, che ttu ci ponessi nella tua corte». Io, ciò udendo, ne risi forte, ma quello melo grande mi disse: «Tu ài bel ridere. Io sto a punto, ch’io so bene per chui mani io era governato, e ora mi governa Mattarello!». «O! – disse quello dell’orticino ch’àe questa bella cepaccia – a me non pare stare meglio di te, ché ’l mio governale è Chiarito, che non mi acorsi mai quando fosse lieto». Quello di Matteo di Niccolò dicea: «Io sono così bene fornito di belle ciocche di mele che sarebbono consolaçione a ogni caro huomo. Fonne mostra a Biagio d’Alexo». E così ciaschuno facea suo ramarichio, ma il ridere mi tenne degli erbucci, che diceano: «Quanto buono e perfetto odore noi rendiamo e come siamo belli e verçichanti, e questo nostro odore è nel tucto mentre non ci è Francescho perduto. Solo ci contentiamo che nne facciamo servigio a ser Tommaso di Giunta quando ci viene, ché cci odora». Ave<n>do di questo assai amiratione e piacere, apparve una grandissima brigata d’uomini e donne; e diliberato mostrare loro, perché non si lamentassino, questi vostri melaranci, andando aprire loro l’uscio, mi destai. E desto, ricordatomi del sognio, perché n’aveste piacere, ve l’ò stesamente scripto.

Il vostro Bartolomeo di messer Niccola in Prato,

VIII di sectenbre, ch’è la fiera a Prato.

(Datini, busta 1091, codice 6000666, edizione a c. di J. Hayez, in  Palazzo Datini. Una casa fatta per durare mille anni, pp. 193-194)